terça-feira, 4 de outubro de 2016

Nº 2897 - (278-2016) SANTOS DE CADA DIA - 4 DE OUTUBRO DE 2016 - OITAVO ANO

Caros Amigos:





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Desde o dia 1 de Janeiro que venho colocando aqui os meus Votos de um Bom Ano de 2016.
Como estamos no último terço do Ano, que se aproxima do seu fim velozmente, passo a desejar

UM BOM resto do ANO DE 2016

Nº 2897 -  (278 - 2016) 

4 DE OUTUBRO DE 2016

SANTOS DE CADA DIA

8º   A N O



 miscelania 008



LOUVADO SEJA NOSSO SENHOR JESUS CRISTO



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Comemorar e lembrar os
Santos de Cada Dia
é dever de todo o católico,
assim como procurar seguir os seus exemplos
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FRANCISCO DE ASSIS, Santo

        

 

Memória de São FRANCISCO DE ASSIS que, depois de uma vida despreocupada, se converteu à vida evangélica em Assis, na Úmbria, região da Itália, encontrando Jesus Cristo especialmente nos pobres e tornando-se ele mesmo pobre ao serviço dos necessitados. Reuniu em comunidade consigo os Frades Menores, pregou o amor de Deus a todos nas suas caminhadas, inclusivamente na peregrinação à Terra Santa, mostrando com as suas palavras e atitudes o desejo de seguir a Cristo, e quis morrer deitado sobre a terra nua. (1226)

A seguir transcreve-se texto do site www.santiebeati.it:
 Nel suo 'Testamento' scritto poco prima di morire, Francesco annotò: “Nessuno mi insegnava quel che io dovevo fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il Santo Vangelo”.
Per questo è considerato il più grande santo della fine del Medioevo; egli fu una figura sbocciata completamente dalla grazia e dalla sua interiorità, non spiegabile per niente con l'ambiente spirituale da cui proveniva.
Ma proprio a lui toccò in un modo provvidenziale, di dare la risposta agli interrogativi più profondi del suo tempo.
Avendo messo in chiara luce con la sua vita i principi universali del Vangelo, con una semplicità e amabilità stupefacenti, senza imporre mai nulla a nessuno, ebbe un influsso straordinario, che dura tuttora, non solo nel mondo cristiano ma anche al di fuori di esso.

Origini e gioventù
Francesco, l'apostolo della povertà, in effetti era figlio di ricchi, nacque ad Assisi nei primi del 1182 da Pietro di Bernardone, agiato mercante di panni e dalla nobile Giovanna detta “la Pica”, di origine provenzale. Secondo le Fonti Francescane la nascita potrebbe però datarsi all'estate o all'autunno 1181.
In omaggio alla nascita di Gesù, la religiosissima madonna Pica, volle partorire il bambino in una stalla improvvisata al pianterreno della casa paterna, in seguito detta “la stalletta” o “Oratorio di s. Francesco piccolino”, ubicata presso la piazza principale della città umbra.
La madre in assenza del marito Pietro, impegnato in un viaggio di affari in Provenza, lo battezzò con il nome di Giovanni, in onore del Battista; ma ritornato il padre, questi volle aggiungergli il nome di Francesco che prevarrà poi sul primo.
Questo nome era l'equivalente medioevale di 'francese' e fu posto in omaggio alla Francia, meta dei suoi frequenti viaggi e occasioni di mercato; disse s. Bonaventura suo biografo: “per destinarlo a continuare il suo commercio di panni franceschi”; ma forse anche in omaggio alla moglie francese, ciò spiega la familiarità con questa lingua da parte di Francesco, che l'aveva imparata dalla madre.
Crebbe tra gli agi della sua famiglia, che come tutti i ricchi assisiani godeva dei tanti privilegi imperiali, concessi loro dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen.
Come istruzione aveva appreso le nozioni essenziali presso la scuola parrocchiale di San Giorgio e le sue cognizioni letterarie erano limitate; ad ogni modo conosceva il provenzale ed era abile nel mercanteggiare le stoffe dietro gli insegnamenti del padre, che vedeva in lui un valido collaboratore e l'erede dell'attività di famiglia.
Non alto di statura, magrolino, i capelli e la barbetta scura, Francesco era estroso ed elegante, primeggiava fra i giovani, amava le allegre brigate, spendendo con una certa prodigalità il denaro paterno, tanto da essere acclamato “rex iuvenum” (re dei conviti) che lo poneva alla direzione delle feste.

Combattente e sua conversione
Con la morte dell'imperatore di Germania Enrico IV (1165-1197) e l'elezione a papa del card. Lotario di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216), gli scenari politici cambiarono; il nuovo papa sostenitore del potere universale della Chiesa, prese sotto la sua sovranità il ducato di Spoleto compresa Assisi, togliendolo al duca Corrado di Lützen.
Ciò portò ad una rivolta del popolo contro i nobili della città, asserviti all'imperatore e sfruttatori dei loro concittadini, essi furono cacciati dalla rocca di Assisi e si rifugiarono a Perugia; poi con l'aiuto dei perugini mossero guerra ad Assisi (1202-1203).
Francesco, con lo spirito dell'avventura che l'aveva sempre infiammato, si buttò nella lotta fra le due città così vicine e così nemiche.
Dopo la disfatta subita dagli assisiani a Ponte San Giovanni, egli fu fatto prigioniero dai perugini a fine 1203 e restò in carcere per un lungo terribile anno; dopo che i suoi familiari ebbero pagato un consistente riscatto, Francesco ritornò in famiglia con la salute ormai compromessa.
La madre lo curò amorevolmente durante la lunga malattia; ma una volta guarito egli non era più quello di prima, la sofferenza aveva scavato nel suo animo un'indelebile solco, non sentiva più nessuna attrattiva per la vita spensierata e i suoi antichi amici non potevano più stimolarlo.
Come ogni animo nobile del suo tempo, pensò di arruolarsi nella cavalleria del conte Gualtiero di Brenne, che in Puglia combatteva per il papa; ma giunto a Spoleto cadde in preda ad uno strano malessere e la notte ebbe un sogno rivelatore con una voce misteriosa che lo invitava a “servire il padrone invece che il servo” e quindi di ritornare ad Assisi.
Colpito dalla rivelazione, tornò alla sua città, accolto con preoccupazione dal padre e con una certa disapprovazione di buona parte dei concittadini.
Lasciò definitivamente le allegre brigate per dedicarsi ad una vita d'intensa meditazione e pietà, avvertendo nel suo cuore il desiderio di servire il gran Re, ma non sapendo come; andò anche in pellegrinaggio a San Pietro in Roma con la speranza di trovare chiarezza.
Ritornato deluso ad Assisi, continuò nelle opere di carità verso i poveri ed i lebbrosi, ma fu solo nell'autunno 1205 che Dio gli parlò; era assorto in preghiera nella chiesetta campestre di San Damiano e mentre fissava un crocifisso bizantino, udì per tre volte questo invito: “Francesco va' e ripara la mia chiesa, che come vedi, cade tutta in rovina”.
Pieno di stupore, Francesco interpretò il comando come riferendosi alla cadente chiesetta di San Damiano, pertanto si mise a ripararla con il lavoro delle sue mani, utilizzando anche il denaro paterno.
A questo punto il padre, considerandolo ormai irrecuperabile, anzi pericoloso per sé e per gli altri, lo denunziò al tribunale del vescovo come dilapidatore dei beni di famiglia; notissima è la scena in cui Francesco denudatosi dai vestiti, li restituì al padre mentre il vescovo di Assisi Guido II, lo copriva con il mantello, a significare la sua protezione.
Il giovane fu affidato ai benedettini con la speranza che potesse trovare nel monastero la soddisfazione alle sue esigenze spirituali; i rapporti con i monaci furono buoni, ma non era quella la sua strada e ben presto riprese la sua vita di “araldo di Gesù re”, indossò i panni del penitente e prese a girare per le strade di Assisi e dei paesi vicini, pregando, servendo i più poveri, consolando i lebbrosi e ricostruendo oltre San Damiano, le chiesette diroccate di San Pietro alla Spira e della Porziuncola.

La vocazione alla povertà e l'inizio della sua missione
Nell'aprile del 1208, durante la celebrazione della Messa alla Porziuncola, ascoltando dal celebrante la lettura del Vangelo sulla missione degli Apostoli, Francesco comprese che le parole di Gesù riportate da Matteo (10, 9-10) si riferivano a lui: “Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l'operaio ha diritto al suo nutrimento. E in qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se ci sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza”.
Era la risposta alle sue preghiere e domande che da tempo attendeva; comprese allora che le parole del Crocifisso a San Damiano non si riferivano alla ricostruzione del piccolo tempio, ma al rinnovamento della Chiesa nei suoi membri; depose allora i panni del penitente e prese la veste “minoritica”, cingendosi i fianchi con una rude corda e coprendosi il capo con il cappuccio in uso presso i contadini del tempo e camminando a piedi scalzi.
Iniziò così la vita e missione apostolica, sposando “madonna Povertà” tanto da essere poi definito “il Poverello di Assisi”, predicando con l'esempio e la parola il Vangelo come i primi apostoli.
Francesco apparve in un momento particolarmente difficile per la vita della Chiesa, travagliata da continue crisi provocate dal sorgere di movimenti di riforma ereticali e lotte di natura politica, in cui il papato era allora uno dei massimi protagonisti.
In un ambiente corrotto da ecclesiastici indegni e dalle violenze della società feudale, egli non prese alcuna posizione critica, né aspirò al ruolo di riformatore dei costumi morali della Chiesa, ma ad essa si rivolse sempre con animo di figlio devoto e obbediente.
Rendendosi interprete di sentimenti diffusi nel suo tempo, prese a predicare la pace, l'uguaglianza fra gli uomini, il distacco dalle ricchezze e la dignità della povertà, l'amore per tutte le creature di Dio e al disopra di ogni cosa, la venuta del regno di Dio.

Inizio dell'Ordine dei Frati Minori
Ben presto attirati dalla sua predicazione, si affiancarono a Francesco, quelli che sarebbero diventati suoi inseparabili compagni nella nuova vita: Bernardo di Quintavalle un ricco mercante, Pietro Cattani dottore in legge, Egidio contadino e poco dopo anche Leone, Rufino, Elia, Ginepro ed altri fino al numero di dodici, proprio come gli Apostoli, formanti una specie di 'fraternità' di chierici e laici, che vivevano alla luce di un semplice proposito di ispirazione evangelica.
Il loro era un vivere alla lettera il Vangelo, senza preoccupazioni teologiche e senza ambizioni riformatrici o contestazioni morali, indicando così una nuova vita a chi voleva vivere in carità e povertà all'interno della Chiesa; per la loro obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, il vescovo di Assisi Guido prese a proteggerli, seguendoli con interesse e permettendo loro di predicare.
Ai primi del 1209 il gruppo si riuniva in una capanna nella località di Rivotorto, nella pianura sottostante la città di Assisi, presso la Porziuncola, iniziando così la “prima scuola” di formazione, dove durante un intero anno Francesco trasmise ai compagni il suo carisma, alternando alla preghiera, l'assistenza ai lebbrosi, la questua per sostenersi e per riparare le chiese danneggiate.
Giacché ormai essi sconfinavano fuori dalla competenza della diocesi, e ciò poteva procurare problemi, il vescovo Guido consigliò Francesco e il suo gruppo di recarsi a Roma dal papa Innocenzo III per farsi approvare la prima breve Proto-Regola del nuovo Ordine dei Frati Minori.
Regola che fu approvata oralmente dal papa, dopo un suggestivo incontro con il gruppetto, vestito dalla rozza tunica e scalzo, colpito fra l'altro da “quel giovane piccolo dagli occhi ardenti”; nacque così ufficialmente l'Ordine dei Frati Minori, che riceveva la tonsura entrando a far parte del clero; sembra che in quest'occasione Francesco abbia ricevuto il diaconato.

Chiara e le clarisse
Tutta Assisi parlava delle 'bizzarie' del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “pace e bene”; nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di S. Rufino, dove nell'attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Affreduccio e sicuramente in quell'occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c'era la giovanissima figlia Chiara.
Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi dei suoi ideali di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall'amica Bona di Guelfuccio e inviandogli spesso un poco di denaro.
Nella notte seguente la Domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto il suo palazzo e correndo al buio attraverso i campi, giunse fino alla Porziuncola dove chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva.
Francesco, davanti all'altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura (ancora oggi conservata) consacrandola al Signore.
Poi l'accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all'ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare.
Successivamente Chiara e le compagne che l'avevano raggiunta, si spostò dopo alterne vicende, nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove nel 1215 a 22 anni Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò alle “Povere donne recluse di S. Damiano” (il nome 'Clarisse' fu preso dopo la morte di s. Chiara) una prima Regola di vita, sostituita più tardi da quella della stessa santa.
Chiara con le compagne, sarà l'incarnazione al femminile dell'ideale francescano, a cui si assoceranno tante successive Congregazioni di religiose.

L'ideale missionario
Francesco non desiderò solo per sé e i suoi frati, l'evangelizzazione del mondo cristiano deviato dagli originari principi evangelici, ma anche raggiungere i non credenti, specie i saraceni, come venivano chiamati allora i musulmani.
Se in quell'epoca i rapporti fra il mondo cristiano e quello musulmano erano tipicamente di lotta, Francesco volle capovolgere questa mentalità, vedendo per primo in loro dei fratelli a cui annunciare il Vangelo, non con le armi ma offrendolo con amore e se necessario subire anche il martirio.
Mandò per questo i suoi frati prima dai Mori in Spagna, dove vennero condannati a morte e poi graziati dal Sultano e dopo in Marocco, dove il gruppo di frati composti da Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto, Ottone, mentre predicavano, furono arrestati, imprigionati, flagellati e infine decapitati il 16 gennaio 1220.
Il ritorno in Portogallo dei corpi dei protomartiri, suscitò la vocazione francescana nell'allora canonico regolare di S. Agostino, il dotto portoghese e futuro santo, Antonio da Padova.
Francesco non si scoraggiò, nel 1219-1220 volle tentare personalmente l'impresa missionaria diretto in Marocco, ma una tempesta spinse la nave sulla costa dalmata, il secondo tentativo lo fece arrivare in Spagna, occupata dai musulmani, ma si ammalò e dovette tornare indietro, infine un terzo tentativo lo fece approdare in Palestina, dove si presentò al sultano egiziano Al-Malik al Kamil nei pressi del fiume Nilo, che lo ricevette con onore, ascoltandolo con interesse; il sultano non si convertì, ma Francesco poté dimostrare che il dialogo dell'amore poteva essere possibile fra le due grandi religioni monoteiste, dalle comuni origini in Abramo.

La seconda Regola
Verso la metà del 1220, Francesco dovette ritornare in Italia per rimettere ordine fra i suoi frati, cresciuti ormai in numero considerevole, per cui l'originaria breve Regola era diventata insufficiente con la sua rigidità.
Il Poverello non aveva inteso fondare conventi ma solo delle 'fraternità', piccoli gruppi di fratelli che vivessero in mezzo al mondo, mostrando che la felicità non era nel possedere le cose ma nel vivere in perfetta armonia secondo i comandamenti di Dio.
Ma la folla di frati ormai sparsi per tutta l'Italia, poneva dei problemi di organizzazione, di formazione, di studio, di adattamento alle necessità dell'apostolato in un mondo sempre in evoluzione; quindi il vivere in povertà non poteva condizionare gli altri aspetti del vivere nel mondo.
Nell'affollato “capitolo delle stuoia”, tenutosi ad Assisi nel 1221, Francesco autorizzò il dotto Antonio venuto da Lisbona, d'insegnare ai frati la sacra teologia a Bologna, specie a quelli addetti alla predicazione e alle confessioni.
La nuova Regola fu dettata da Francesco a frate Leone, accolta con soddisfazione dal cardinale protettore dell'Ordine, Ugolino de' Conti, futuro papa Gregorio IX e da tutti i frati; venne approvata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III.
In essa si ribadiva la povertà, il lavoro manuale, la predicazione, la missione tra gl'infedeli e l'equilibrio tra azione e contemplazione; si permetteva ai frati di avere delle Case di formazione per i novizi, si stemperò un poco il concetto di divieto della proprietà.

Il presepe vivente di Greccio
La notte del 24 dicembre 1223, Francesco si sentì invadere il cuore di tenerezza e di slancio volle rivivere nella selva di Greccio, vicino Rieti, l'umile nascita di Gesù Bambino con figure viventi.
Nacque così la bella e suggestiva tradizione del Presepio nel mondo cristiano, che sarà ripresa dall'arte e dalla devozione popolare lungo i secoli successivi, con l'apporto dell'opera di grandi artisti, tale da costituire un filone dell'arte a sé stante, comprendenti orafi, scenografi, pittori, scultori, costumisti, architetti; il cui apice per magnificenza, realismo, suggestività, si ammira nel Presepe settecentesco napoletano.

Il suo Calvario personale
Ormai minato nel fisico per le malattie, per le fatiche, i continui spostamenti e digiuni, Francesco fu costretto a distaccarsi dal mondo e dal governo dell'Ordine, che aveva creato pur non avendone l'intenzione.
Nell'estate del 1224 si ritirò sul Monte della Verna (Alverna) nel Casentino, insieme ad alcuni dei suoi primi compagni, per celebrare con il digiuno e intensa partecipazione alla Passione di Cristo, la “Quaresima di San Michele Arcangelo”.
La mattina del 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava su un fianco del monte, vide scendere dal cielo un serafino con sei ali di fiamma e di luce, che gli si avvicinò in volo rimanendo sospeso nell'aria.
Fra le ali del serafino, Francesco vide lampeggiare la figura di un uomo con mani e piedi distesi e inchiodati ad una croce; quando la visione scomparve lasciò nel cuore di Francesco un ammirabile ardore e nella carne i segni della crocifissione; per la prima volta nella storia della santità cattolica, si era verificato il miracolo delle stimmate.
Disceso dalla Verna, visibilmente dolorante e trasformato, volle ritornare ad Assisi; era anche prostrato da varie malattie, allo stomaco, alla milza e al fegato, con frequenti emottisi, inoltre la vista lo stava lasciando, a causa di un tracoma contratto durante il suo viaggio in Oriente.

Il lungo declino fisico, il “Cantico delle creature”, la morte
Dopo le ultime prediche all'inizio del 1225, Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata tanti anni prima e dove viveva Chiara e le sue suore.
E in questo suggestivo e spirituale luogo di preghiera, egli compose il famoso “Cantico di frate Sole” o “Cantico delle Creature”, sublime poesia, ove si comprende quanto Francesco fosse penetrato nella più intima realtà della natura, contemplando sotto ogni creatura l'adorabile presenza di Dio.
Se la fede gli aveva fatto riscoprire la fratellanza universale degli uomini, tutti figli dello stesso Padre, nel 'Cantico' egli coglieva il legame d'amore che lega tutte le creature, animate ed inanimate, tra loro e con l'uomo, in un abbraccio planetario di fratelli e sorelle che hanno un solo scopo, dare gloria a Dio.
In questo periodo, ospite per un certo tempo nel palazzo vescovile, dettò anche il suo famoso 'Testamento', l'ultimo messaggio d'amore del Poverello ai suoi figli, affinché rimanessero fedeli a madonna Povertà.
Poi per l'interessamento del cardinale Ugolino e di frate Elia, Francesco accettò di sottoporsi alle cure dei medici della corte papale a Rieti; poi ancora a Fabriano, Siena e Cortona, ma nell'estate del 1226 non solo non era migliorato, ma si fece sempre più evidente il sorgere di un'altra grave malattia, l'idropisia.
Dopo un'altra sosta a Bagnara sulle montagne vicino a Nocera Umbra, perché potesse avere un po' di refrigerio, i frati visto l'aggravarsi delle sue condizioni, decisero di trasportarlo ad Assisi e su sua richiesta all'amata Porziuncola, dove a tarda sera del 3 ottobre 1226, Francesco morì recitando il salmo 141, adagiato sulla nuda terra, aveva circa 45 anni.
Le allodole, amanti della luce e timorose del buio, nonostante che fosse già sera, vennero a roteare sul tetto dell'infermeria, a salutare con gioia il santo, che un giorno (fra Camara e Bevagna), aveva invitato gli uccelli a cantare lodando il Signore; e in altra occasione in un campo verso Montefalco aveva tenuto loro una predica, che gli uccelli immobili ascoltarono, esplodendo poi in cinguetii e voli di gioia.
La mattina del 4 ottobre, il suo corpo fu traslato con una solenne processione dalla Porziuncola alla chiesa parrocchiale di S. Giorgio ad Assisi, dove era stato battezzato e dove aveva cominciato nel 1208 la predicazione.
Lungo il percorso il corteo si fermò a San Damiano, dove la cassa fu aperta, affinché santa Chiara e le sue “povere donne” potessero baciargli le stimmate.
Nella chiesa di San Giorgio rimase tumulato fino al 1230, quando venne portato nella Basilica inferiore, costruita da frate Elia, diventato Ministro Generale dell'Ordine.
Intanto il 16 luglio 1228, papa Gregorio IX a meno di due anni dalla morte, proclamò santo il Poverello d'Assisi, alla presenza della madre madonna Pica, del fratello Angelo e altri parenti, del vescovo Guido di Assisi, di numerosi cardinali e vescovi e di una folla di popolo mai vista, fissandone la festa al 4 ottobre.

Il culto, Patronati
Gli episodi della sua vita e dei suoi primi seguaci, furono raccolti e narrati nei “Fioretti di San Francesco”, opera di anonimo trecentesco, che contribuì nel tempo alla larga diffusione del suo culto, unitamente alla prima e seconda 'Vita', scritte dal suo discepolo Tommaso da Celano (1190-1260), su richiesta di papa Gregorio IX.
Alcuni episodi sono entrati nell'iconografia del santo e riprodotti dall'arte, come la predica agli uccelli, il roseto in cui si rotolò per sfuggire alla tentazione, il lupo che ammansì a Gubbio, il ricevimento delle Stimmate, ecc.
È patrono dell'Umbria e di molte città, fra le quali San Francisco negli USA che da lui prese il nome; innumerevoli sono le chiese, le parrocchie, i conventi, i luoghi pubblici che portano il suo nome; come pure tanti altri santi e beati, venuti dopo di lui, che ebbero al battesimo o adottarono nella vita religiosa il suo nome.
Il grande santo di Assisi, che lo storico e scrittore, don Enrico Pepe definisce “Patrimonio dell'umanità”, fu riconosciuto da papa Pio XII, come il “più italiano dei santi e più santo degli italiani” e il 18 giugno 1939, lo proclamò Patrono principale d'Italia.

Il cammino dei suoi 'Frati Minori'
La Regola composta da s. Francesco su istanza del cardinale Ugolino de' Conti, futuro papa Gregorio IX e approvata solennemente da Onorio III nel 1223, era formata da 12 capitoli, essa prescriveva una rigida e assoluta povertà, il lavoro per procurasi il cibo e l'elemosina come mezzo sussidiario di sostentamento.
Capo dell'Ordine, che si propagò rapidamente al punto che, vivente ancora il fondatore, annoverava già 13 Province, fu un Ministro Generale. Le costituzioni furono redatte da San Bonaventura da Bagnoregio.
Mentre ancora l'organizzazione del nuovo Movimento religioso si stava consolidando, scoppiarono i primi contrasti. I membri dell'Ordine si divisero in due fazioni: la prima intendeva adottare forme meno severe di vita comunitaria e prescindere dall'obbligo assoluto della povertà, al fine di rendere meno difficile lo sviluppo dell'Ordine stesso; la seconda al contrario, si proponeva di uniformarsi alla lettera e allo spirito delle norme lasciate dal fondatore.
I numerosi tentativi per placare i dissensi non ebbero effetto, anzi questi si acuirono di più quando Gregorio IX con la bolla “Quo elongati” (1230), concesse ai frati, che presero in seguito il nome di 'Conventuali', la possibilità di ricevere beni e di amministrarli per le loro esigenze.
Nel campo opposto, correnti definite ereticali, come quelle degli spirituali e dei fraticelli, rappresentarono l'ala estrema del francescanesimo e agitarono un programma di rinnovamento religioso misto ad un'auspicabile rinascita politico-sociale, che sarebbe dovuto sfociare nell'avvento del regno dello Spirito, ma si attirarono scomuniche e persecuzioni dalle autorità ecclesiastiche e feudali.
La divisione in due Movimenti, Osservanti e Conventuali, fu sanzionata nel 1517 da papa Leone X; nel 1525 papa Clemente VII approvò il nuovo ramo dei frati Cappuccini, guidato dal frate Minore Osservante Matteo da Bascio della Marca d'Ancona, dediti ad una più austera disciplina, povertà assoluta e vita eremitica; altre famiglie francescane riformate sorsero nei secoli (Alcantarini, Riformati, Amadeiti) in seno o a fianco degli Osservanti, ma tutti obbedivano al Ministro Generale dell'Osservanza.
L'Ordine francescano comprende anche il ramo femminile, le Clarisse e il Terz'Ordine dei laici o Terziari francescani, fondati dallo stesso s. Francesco nel 1221, per raccogliere i numerosi seguaci già sposati e di ogni ordine sociale.
L'Ordine, ai cui membri dei diversi rami, Leone XIII nel 1897, ingiunse di prendere il nome comune di Frati Minori, è tra i più importanti della Chiesa. Oltre alle pratiche religiose e ascetiche, essi furono e sono dediti alla predicazione, ad un apostolato di tipo sociale in luoghi di cura, e soprattutto all'opera missionaria.


Cantico delle Creature

Altissimo, onnipotente, bon Signore
Tue so' le laude, la gloria et l'honore
et onne benedictione.
A te solo, Altissimo, se konfanno
Et nullo homo ene digno te mentovare.
Laudato si', mi' Signore, cum tucte le tue creature,
specialmente messer lo frate sole
lo quale è iorno et allumini noi per lui,
et ellu è bellu e radiante, cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale alle tue creature dai sostentamento.
Laudato si', mi' Signore, per sora acqua,
la quale è molto utile et humile
et pretiosa et casta.
Laudato si', mi' Signore, per frate focu
per lo quale enallumini la nocte
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra madre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.
Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano
per lo tuo amore,
et sostengo' infirmitate et tribolatione.
Beati quelli ke le sosterranno in pace
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si', mi' Signore,
per sora nostra morte corporale
da la quale nullo homo vivente po' skappare.
Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà
ne le sue sanctissime volutati,
ka la morte secunda nol farrà male.
Laudate et benedicete mi' Signore,
et rengratiate et serviteli
cum grande humilitate.
(S. Francesco d'Assisi)


  
PETRÓNIO DE BOLONHA, Santo


Em Bolonha, hoje Emília-Romanha. Itália, São PETRÓNIO bispo que passou das responsabilidades políticas ao ministério sacerdotal e ilustrou com os seus escritos e o seu exemplo a natureza do ministério episcopal. (450)


QUINTINO DE MEAUX, Santo

   

 
No territorio da Gália Turonense, hoje França, São QUINTINO mártir. (séc. VI) 
ÁUREA DE PARIS, Santa
 

Em Paris, na Gália hoje França, Santa ÁUREA abadessa designada por Santo ELÍGIO para presidir ao mosteiro que ele tinha fundado dentro da cidade segundo a regra de São Columbano no qual tinha reunido trezentas virgens. (856)



FRANCISCO XAVIER SEELOS, Beato



Em New Orleans, na Luisiana, nos Estados Unidos da América do Norte, o Beato FRANCISCO XAVIER SEELOS presbitero da Congregação do Santissimo Redentor, oriundo da Baviera que atendeu com grande solicitude às necessidades das crianças, dos jovens e dos imigrantes. (1867)

HENRIQUE MORANT PELLICER, Beato



  
Em Xaraco, Valência, Espanha, o Beato HENRIQUE MORANT PELLICER presbitero e mártir que consumou o combate pela fé durante a perseguição religiosa. (1936)

JOSÉ CANET GINER, Beato



Em Gandia, Valência, Espanha, o Beato JOSÉ CANET GINER presbitero e mártir que, pela sua fidelidade a Cristo, mereceu ser associado ao sacrificio do Salvador. (1936)

 
ALFREDO PELLICER MUÑOZ (Jaime), Beato




Em Bellrreguart, Valência, Espanha, o beato ALFREDO PELLICER MUÑOZ (Jaime) religioso da Ordem dos Frades Menores e mártir que, na mesma perseguição confirmou a sua fé em Cristo até alcançar a palma da vitória. (1936)






 ... E AINDA  ...


ALFONSO TABELA, Beato
 

Famoso per la cultura e la pietà, il BeatoAlfonso Tabela, fu gloria del Portogalloche onorò la provincia mercedaria diCastiglia.Mandato a redimere in Africa, liberò nellacittà di Algeri 50 fanciulli dal pericolodell'apostasia.Morì gloriosamente nel bacio del Signorenella sua patria in città di Lisbona l'anno1550.
L'Ordine lo festeggia il 4 ottobre.
CAIO DE CORINTO, Santo


Personaggio del N.T., ospite di s. Paolo durante il soggiorno dell'apostolo a Corinto nel 57 o 58 d.C., da lui battezzato personalmente in segno di distinzione, è venerato il 4 ottobre nel Martirologio Romano insieme con s. Crispo archisinagogo di Corinto.
Universalmente ammessa è l'identità fra il Caio delle due epistole paoline citt.: in I Cor. 1, 14 si ricorda la distinzione del battesimo che s. Paolo concesse, a Corinto, soltanto a Caio, a Crispo, e alla famiglia di Stefana; in Rom. 16, 23 si loda l'ospitalità concessa da Caio all'apostolo e "a tutta la chiesa" (la Volgata, invece, e alcuni codd. della Vetus latina portano "salutat vos Caius hospes meus et universa ecclesia"), e s'inviano i suoi saluti ai fedeli di Roma, che evidentemente conoscevano Caio come persona facoltosa e virtuosa. Meno pacifica è l'identità fra il Caio "macedone" di Atti 19, 29, rapito e malmenato a Efeso a causa di Paolo da furibondi dimostranti capeggiati dalI'argentiere Demetrio, e il Caio di Derbe (in Licaonia) ricordato in Act. 20, 4 fra i compagni di Paolo nel viaggio a Gerusalemme del 58. Certamente diverso da tutti gli omonimi biblici è il Caio destinatario della lettera e discepolo dell'evangelista, che ne loda l'ospitalità (di qui l'erronea identificazione avanzata da Beda, in PL, XCIII, coll. 121 sg., col Caio di Corinto).
Per quanto riguarda la celebrazione dei santi di nome Caio nei martirologi, il comportamento delle Chiese orientali merita qualche attenzione. I menologi greci, tacendo di Crispo, celebrano un s. C. il 4 (o 5) novembre nonché il 30 giugno, nella festa comune a tutti i santi del N.T.; il Martirologio di Rabban Slibà ricorda Caio il 5 novembre semplicemente come "discepolo di s. Paolo". L'indeterminatezza potrebbe essere intenzionale, dato l'incrociarsi di varie tradizioni relative a Caio: infatti i menologi greci lo indicano come apostolo o come uno dei settanta discepoli del Signore secondo il canone dello Ps. Ippolito, nonché come vescovo di Efeso, successore immediato di s. Timoteo: invece, secondo una tradizione risalente a Origene, Caio sarebbe stato il primo vescovo di Tessalonica. Quest'ultima tradizione appare assai dubbia ai Bollandisti, a Tillemont é a Bardy, i quali la attribuiscono alla confusione di Caio di Corinto con Caio il macedone, peraltro assai difficilmente imputabile a Origene che, commentando Rom. 16, 23, non può aver avuto in mente che Caio di Corinto. Non si può non lodare, anche in questo caso, la sobrietà del Martirologio Romano che, in assenza di dati certi, si astiene dall'assegnare a Caio una determinata sede vescovile e non festeggia che Caio di Corinto, sulla base di I Cor. 1,14, senza neppure accennare all'ovvia identificazione col Caio di Rom. 16, 23.

CRISPO DE CORINTO, Santo

Crispo era un giudeo che come tanti altri in quel tempo, portava un nome romano, ed era il capo della sinagoga di Corinto, quando nel 50-51 s. Paolo iniziò il suo apostolato in quella città.
Negli Atti degli Apostoli è scritto che Crispo convinto dalle argomentazioni di Paolo, si convertì e “credette in Gesù con tutta la sua casa”; come era consuetudine, infatti i familiari ed i dipendenti seguivano la religione del capo di famiglia.
Nella I lettera ai Corinti, è riportato che Crispo fu battezzato da s. Paolo come Gaio e la famiglia di Stefanas, (I Cor. 1, 14 sg.). Data la sua posizione in seno al giudaismo, la sua conversione, ebbe certamente una grande pubblicità ed efficacia, provocando la conversione di altri correligionari.
Venne deposto dalla carica che ricopriva nella sinagoga e sostituito da Sostene (Act. 18, 17), il quale seguì poi l’esempio di Crispo suo predecessore, convertendosi al cristianesimo e diventando uno dei compagni di s. Paolo, il quale nella I lettera ai Corinti lo chiama “fratello”.
Non si hanno notizie sulla vita successiva di Crispo; una tradizione posteriore lo dice vescovo di Egina nel golfo di Saronico.
Il ‘Martirologio Romano’ lo associa nella celebrazione insieme a Gaio, al 4 ottobre e lo considera morto a Corinto.
DAMARIDE, Santa


Tra i pochissimi personaggi che, udito il forbito discorso tenuto da San Paolo all’Areopago di Atene, aderirono alla fede cristiana, l’evangelista Luca nomina negli Atti degli Apostoli “Dionigi l’Aeropagita”, membro cioè di quel tribunale e pertanto appartenente all’aristocrazia ateniese, “ed una donna di nome Damaris”, forse Damalis. San Dionigi è venerato quale primo vescovo di Atene al 3 ottobre. Come già avvenuto ad esempio per Zaccheo e Veronica, personaggi evangelici uniti in matrimonio dalla pietà popolare, Damaride fu considerata sposa del protovescovo ateniese, tradizione riferita anche da San Giovanni Crisostomo ma comunque priva di alcun fondamento storico. Damaride era ateniese di nascita ed anch’essa, come Dionigi, si convertì al cristianesimo in seguito alla predicazione di San Paolo. I menologi greci commemorano Santa Damaride al 4 ottobre, che non va confusa con l’omonimo corpo santo venerato presso Palo del Colle (Ba).

MARTINA VASQUEZ GORDO, Beata



Martina Vásquez Gordo nacque a Cuéllar , presso Segovia, il 30 gennaio 1865, primogenita degli otto figli di Zacarías e Antonia, proprietari di una pasticceria. Sin dai primi anni manifestò il carattere intelligente e coraggioso che l’avrebbe contraddistinta per tutta la vita.
Alla morte della madre, Martina dovette cominciare ad aiutare in negozio: i testimoni dichiarano che era molto collaborativa e servizievole.
Una volta cresciuta, pensò di doversi formare una famiglia, quindi accettò di fidanzarsi con un giovane di Toro, città vicina a Zamora. Il suo parroco, però, ritenne che non fosse volontà di Dio e la dissuase.
Nel frattempo, suo padre era stato ricoverato per una caduta da cavallo presso l’Ospedale centrale di Valladolid, dove operavano le Figlie della Carità di San Vincenzo De Paoli. Nel vedere come assistevano i malati, intuì che Dio la chiamava a essere una di loro, ma per averne conferma chiese un segno: la guarigione del genitore. Quando lui si riprese, Martina non ebbe più dubbi e ruppe il fidanzamento.
Il padre, tuttavia, non era d’accordo: era rimasto vedovo e non poteva sopportare di essere lasciato solo con gli altri cinque figli, due maschi e tre femmine (gli altri due erano morti in tenera età). Martina, quindi, pregava e aspettava e, intanto, insegnava alle sorelle come occuparsi della pasticceria. Un’altra delle sorelle, intanto, era entrata nel convento delle Concezioniste a Cuéllar , per cui non comprendeva perché a lei fosse negato di farsi religiosa.
Infine, aiutata dal parroco e dalle suore dell’ospedale di Valladolid, vinse l’opposizione paterna e iniziò a trent’anni compiuti, nel mese di settembre 1895, il postulandato nel medesimo ospedale dove aveva avvertito i primi segni della chiamata. Successivamente, entrò nel Seminario (la struttura di formazione delle giovani Figlie della Carità si chiama così) di Madrid, in calle Jesús 3, il 26 febbraio 1896.
Il periodo di formazione non fu facile: la sincerità della sua vocazione era messa in dubbio e lei stessa venne sottoposta a prove che la portarono a pensare di voler abbandonare quel cammino. Dopo aver molto riflettuto, s’impegnò a resistere e concluse felicemente la parte iniziale della sua vita religiosa.
La sua prima destinazione fu a Zamora, come responsabile della lavanderia e della cucina, in un periodo dove l’ospizio tenuto dalle suore aveva numerosissimi ospiti. Non si era mai occupata di faccende simili, ma, per amore dei poveri, accettò.
Sempre a Zamora, divenne superiora del Colegio de la Medalla Milagrosa, in calle San Torcuato, familiarmente detto “La Milagrosa”. Era stato fondato nel 1903 e lei vi giunse cinque anni dopo, scoprendo che era poco frequentato, a causa di un pregiudizio diffuso: la gente, infatti, pensava che la scuola non fosse molto prestigiosa. A quel punto, suor Martina uscì per diffondere personalmente la voce che, nel settembre 1909, sarebbero ricominciate le attività didattiche.
Si spinse perfino in uno dei circoli frequentati dagli uomini del quartiere, attaccando bottone con alcuni deputati cittadini, che giocavano a biliardo, per convincerli a iscrivere i loro figli. Uno di essi, per scherzo, esclamò che, se lei avesse partecipato a una partita e fosse riuscita a fare carambola, lui avrebbe mandato alla Milagrosa suo figlio. Ella, dunque, prese la stecca, si concentrò e mandò in buca la pallina. Di sicuro, l’uomo si sarà stupito nel riconoscere, nella preside della scuola, quell’insospettabile giocatrice.
Nel periodo in cui si occupò della scuola, suor Martina aprì due classi di asilo e una delle elementari; fece anche in modo di ampliare la struttura e costruire nuove aule.
Nel 1914 venne nominata superiora di Segorbe, dove avrebbe dovuto occuparsi di un ospedale e di una scuola, che versava in condizioni tremende. Alla stregua di quanto aveva compiuto a Zamora, capovolse la situazione: per prima cosa, provvide a procurare un’alimentazione adeguata agli ammalati. Inoltre, strinse relazioni con le famiglie benestanti per migliorare le fatiscenti strutture e giunse ad impiegare la sua personale dote familiare.
Ma ciò che le suore compivano non le bastava, o meglio, sentiva che non bastava ai poveri. Di conseguenza, inaugurò, tra gli altri, una mensa per gli operai, un dispensario e «La Gota de Leche» («La Goccia di Latte»), un’organizzazione che si occupava di offrire latte artificiale alle mamme povere che non potevano allattare i loro piccoli. Ogni giorno, poi, andava a visitare gli ospiti di una struttura d’accoglienza temporanea, occupandosi dei loro bisogni e aiutandoli a trovar lavoro.
In seguito, in collaborazione col sindaco, creò la Junta Segorbina de Caridad, a sostegno dell’ospedale e dell’ospizio. La sua carità contagiosa non dimenticò la promozione della cultura: arricchì le scuole con l’apporto di maestre laiche ed ella stessa dava lezioni di taglio e cucito, ma anche di catechismo, alle bambine povere.
Tra il 1918 e il 1923 ricevette l’incarico di assistente del Consiglio Provinciale delle Figlie della Carità, motivo per cui venne destinata di nuovo alla casa di Madrid. Nel 1923 le truppe spagnole impegnate nella guerra in Nordafrica subirono una pesante sconfitta a El Annual: i numerosi feriti avevano bisogno di infermiere.
Alla richiesta di aiuto da parte del Re, la Visitatrice suor Josefa Bengoechea rispose: “Maestà, non ventiquattro, ma quarantadue Figlie della Carità partiranno domani stesso e, in testa a questo battaglione di consolazione balsamo e di pace, marcerà suor Martina”. In effetti, ella fu la responsabile degli ospedali militari, occupando l’incarico di superiora presso l’Ospedale Doker a Melilla.
Si occupava veramente di tutto: pulire i pavimenti, badare ai feriti e, quando l’occasione lo richiedeva, dare ordini ai militari. Convinta che così prolungava sulla terra la missione di Gesù, spesso la si udiva esclamare: “I soldati e i poveri sono coloro che mi devono portare in cielo”.
Un giorno, arrivò al Doker un camion stracolmo di soldati morti e feriti. Suor Martina si mise a scaricarli, consolando quanti erano in fin di vita. I conducenti del camion esclamarono: “Voi siete la nostra vera madre”. In breve, nell’ospedale non ci fu più un posto libero; nei pressi c’era il circolo ufficiali, che le parve perfetto per ospitarli. All’udire il rifiuto di uno dei militari di alto rango, lei si rivolse telefonicamente al Ministro della Guerra, Juan de la Cierva y Peñafiel. Non solo le venne concesso, come da lei richiesto, l’uso del circolo come ospedale per una settimana, ma venne nominata Capitano Generale, un titolo che le consentiva l’autorità di fare pressoché tutto ciò che voleva. Gli stessi ufficiali l’aiutarono ad allestire i letti e tutto il necessario per i feriti.
Poco dopo, arrivò al circolo il general Gonzalo Queipo de Llano y Sierra, che rimase sbalordito da quanto vedeva e decise di conoscere colei che aveva operato quella trasformazione. Entrato all’ospedale, chiese a una religiosa dove potesse trovare suor Martina, sentendosi rispondere che non era tanto lontana. Continuando la visita, incontrò un’altra suora, a cui pose la stessa domanda: “Ha appena finito di parlare con lei”, rispose. Suor Martina, voltandosi, sorrise al generale, che le dichiarò tutta la sua ammirazione.
Terminata la guerra, suor Martina si diresse sul monte Gurugú, dove le truppe africane avevano posizionato i cannoni, e vi disseminò un pugno di Medaglie Miracolose, promettendo che un giorno vi avrebbe fatto porre una statua della Madonna. Uno dei capi religiosi musulmani del luogo, successivamente, le offrì una stoffa di seta da usare per fare un mantello alla Madonna di Henar, patrona di Cuéllar , sua città natale.
Nel 1926 tornò a Segorbe, con rinnovate speranze ed energie. S’impegnò a consolidare le strutture e ad ampliarle se possibile: il tutto per aiutare i suoi amatissimi poveri, senza perdere la sua salda fede e il suo carattere coraggioso, ottimista e umile, che la conduceva a chiedere perdono delle offese che poteva aver arrecato. Nel 1933 venne sollevata dall’incarico di superiora, ma rimase a Segorbe, al fianco dei più bisognosi.
Tre anni dopo, suor Martina si accorse che la situazione per la Chiesa spagnola stava volgendo al peggio. Allo scoppio della guerra civile, il 25 luglio 1936, convocò tutte le suore in cappella, per consumare le sacre specie ed evitarne la profanazione. L’indomani, 26 luglio, i miliziani invasero l’ospedale e intimarono alle suore che alle quattro del pomeriggio dovevano essere fuori di lì, oppure avrebbero sparato e lanciato bombe contro l’edificio.
Così, scortate da quattro soldati, uscirono e vennero portate in una casa disabitata, appartenuta a una delle loro ex allieve; vennero spinte dentro e chiuse a chiave. Di tanto in tanto i persecutori passavano a vedere se qualcuna di loro fosse scappata.
Anche se vivevano segregate, la gente del posto faceva passare il cibo per loro dalle finestre. Suor Martina, dal canto suo, aveva il presentimento che sarebbe morta martire, ma incoraggiava le consorelle: «Dobbiamo essere forti, il Signore non ci abbandonerà. Preghiamo e chiediamo la forza al Signore».
Vissero così dal 26 luglio al 3 ottobre, giorno in cui capirono di doversi preparare spiritualmente a morire. Nella casa vicino alla loro viveva clandestinamente un sacerdote, che non poteva chiaramente entrare da loro: di conseguenza, la confessione si svolse a distanza, mediante segni e per iscritto, con il vetro delle finestre a fungere da grata.
Alle nove di sera del 4 ottobre 1936 arrivarono i miliziani. Suor Martina stava in disparte, perché non si sentiva bene. Le consorelle lo riferirono, ma i soldati risposero di doverla prelevare. Allora lei indossò l’abito religioso, abbracciò commossa ogni suora e diede loro il suo arrivederci in cielo. Alcune supplicarono di poter andare con lei, ma non fu loro concesso.
Venne quindi collocata su di un camion, che si mise in viaggio sulla strada verso Algar de Palancia, al confine tra Castellón e Valencia. Intuendo le intenzioni degli uomini, suor Martina disse: «Mi state per ammazzare, non c’è bisogno che mi portiate lontano». La fecero scendere dal camion e lei, senza opporre alcuna resistenza, chiese loro di aspettare un attimo. Quando però le venne chiesto di voltar loro le spalle, si rifiutò: «Morire con le spalle voltate è da codardi. Voglio ricevere la morte in faccia come Cristo e perdonare come Lui perdonò». Quindi si mise in ginocchio, pregò con fervore e si segnò con l’acqua benedetta che aveva con sé.
Dopo aver baciato il crocifisso, si rivolse un’ultima volta ai persecutori: «Se vi ho offeso in qualcosa, vi chiedo perdono, e se mi uccidete, io vi perdono... Quando volete, potete sparare!». Ciò detto, allargò le braccia in forma di croce, tenendo il crocifisso tra le dita della mano destra. Prima di ricevere la scarica di colpi, ebbe il tempo di pronunciare un’ultima professione di fede: «Credo nelle parole di Cristo: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio”».
I soldati spararono, colpendola al collo e al viso, ma non uccidendola immediatamente. Con tutta la forza che le era rimasta, suor Martina gridò: «Mio Dio, abbi pietà di me!». Con quel grido, cadde in una fossa e morì. Aveva sessantotto anni ed era Figlia della Carità da più di trenta.
Il mattino dopo, il suo corpo venne portato al cimitero di El Algar. Al termine della guerra civile, i suoi resti mortali vennero riesumati, riconosciuti dalle consorelle e condotti a Segorbe, insieme ad altre quarantacinque bare, che vennero vegliate nel chiostro dell’ospedale per tutta la notte. Il suo feretro venne portato a spalla dai soldati della Guardia Civil fino al cimitero. Nel 1959, infine, vennero traslati presso il Santuario di Nuestra Señora de El Henar, a Cuéllar.
Inoltre, la sua città natale le ha dedicato una via nel 2010, mentre anche a Segorbe si è avanzata un’analoga richiesta.
Quanto al suo processo di beatificazione, venne aperto, insieme a quello delle altre undici consorelle di Valencia e dell’Aspirante Dolores Broseta Bonet, il 5 dicembre 1960, ma subì un’interruzione, come molti altri di persone uccise durante la guerra civile. Venne quindi ripreso il 25 novembre 1994, ottenendo il nulla osta della Santa Sede il 5 giugno 1995. L’inchiesta diocesana sul martirio, chiusa il 22 maggio 1996, venne dichiarata valida con decreto del 20 febbraio 1998; l’anno successivo, la “positio super virtutibus” venne trasmessa alla Congregazione vaticana per le Cause dei Santi.
Il 29 settembre 2009 si è tenuta la riunione dei periti teologi, seguita, il 7 giugno 2011, da quella dei cardinali e vescovi membri della Congregazione per le Cause dei Santi. Il 27 giugno 2011 papa Benedetto XVI ha firmato il decreto con cui suor Josefa Martínez Pérez e dodici compagne sono state ufficialmente dichiarate martiri.
La loro cerimonia di beatificazione ha avuto luogo a Tarragona, domenica 13 ottobre 2013, incluse nel più ampio gruppo di cinquecentoventidue martiri uccisi durante la guerra civile spagnola.



TOMMASO DE CELANO, Beato




I. VITA.
Tommaso nato a Celano della Marsica (prov. de l’Aquila) morì nel 1260 ca. Tardive illazioni dalla confusione creata, intorno al 1385, da Bartolomeo da Pisa nel De Conformitate (Analecta Franc., IV, 530) tra “custodia” e “provincia” Pennese, indussero in errore alcuni storiografi dell’Ordine francescano; ad altri suggerirono la distorta conclusione a favore di Cellino Attanasio nel Teramano o, per una genealogia costruita dopo il 1590, l’indicazione che fosse figlio di un Vallesio Castiglione e nato o fattosi frate in Castiglione della Valle. Non è dimostrabile la congettura che sia uscito dal ceppo dei Signori di Celano e d’Albe, sostituiti dal 1212 al 1222 dai fratelli d’Innocenzo III, Riccardo Conte di Sora e Tommaso.
Una notizia autobiografica avverte che fu ricevuto nell’Ordine dal fondatore reduce dalla Spagna alla Porziuncola, e perciò verso il 1214-1215, tra quidam litterati viri et quidam nobiles (Vita I S. Francisci, n.57), essendo già, forse, sacerdote o almeno clericus.
Si sa dalla Cronaca di Giordano da Giano che nel Capitolo del 1221 si offrì volontario per la difficile missione in Germania guidata dal ministro provinciale Cesario da Spira, e che là fu nel 1222 Custode dei conventi di Magonza, Worms e Colonia e l’anno dopo vicario di Cesario disceso in Italia. E’ assai verosimile che fosse presente al transito del Serafico Padre (3 ottobre 1226) ed alla canonizzazione (16 lugl. 1228); di sicuro nel 1230 in Assisi donò a fra’ Giordano alcune piccole reliquie del santo.
Sembra di poterlo identificare con “uno dei compagni” dissuaso in visione da s. Francesco dal darsi alla predicazione (Vita II, n. 195); pare inoltre che abbia concorso alla fondazione dei conventi di Celano (1256) e di Tagliacozzo (1223 o 1259) ed alla erezione o passaggio alla Regola clariana del monastero di S. Maria in S. Giovanni Val dei Varri (1230-1250 ca.). Ivi nell’ufficio di Cappellano delle Clarisse chiuse i suoi giorni nel silenzio.

II. SCRITTI.
Tommaso, presentato da frate Elia o direttamente noto per parentela o clientela alla famiglia dei Conti di Anagni e Segni, ebbe dal card. Ugolino divenuto papa Gregorio IX (19 marzo 1227) l’incarico di scrivere la Legenda ufficiale per la canonizzazione di s. Francesco, che egli presentò al papa in elegante cod. il 25 febb. 1229, onde fu detta Legenda Gregorii, o Vita prima. Sotto il generalato di fra’ Crescenzio da Jesi (1244-lugl. 1247) scrisse, su materiale dei Tre Soci, la Vita seconda, da lui intitolata Memoriale in desiderio animae de gestis et verbis sanctissimi Patris nostri, e la completò, dopo reiterati inviti del ministro generale Giovanni da Parma (1247- 1257), con il Tractatus de miraculis (1250- 1252).
Da questa trilogia dipendono : a) del medesimo autore, la Legenda ad usum chori (1230); b) di Giuliano da Spira, la Legenda S. Francisci e l’Officium rythmicum (1230-1235), poiché non è dimostrata la tesi proposta dal p. Z. Lazzeri, di un inverso rapporto tra i due scrittori. Per molti tratti anche ad litteram ne è tributaria la Legenda maior di s. Bonaventura (1263), dopo la quale un’ordinanza del Capitolo di Parigi del 1266 proscrisse le biografie precedenti.
Scarsi suffragi ha raccolto dalla critica moderna l’attribuzione a Bonaventura della Legenda S. Clarae Virginis, che motivi esterni ed intrinseci persuadono a mantenere a Tommaso, del cui nucleo ai nn. 18-20 della Vita prima di s. Francesco può considerarsi il promesso sviluppo. Meno attendibile è l’assegnazione al celanese della biografia Antoniana Assidua.
Delle operette ritmiche gli è riconosciuta la paternità della sequenza Sanctitatis nova signa, inneggiante la mistero delle stigmate, che tanto risalto ha nelle sue opere in prosa. Intorno al Dies Irae si è riaccesa la discussione nelle celebrazioni centenarie del 1960.
Dopo qualche vivace attacco, a cavaliere dei secc. XIX e XX, alla sincerità del primo biografo di s. Francesco, la fama di Tommaso si è consolidata, ed ormai si conviene che non si può più prescindere dai suoi scritti per trattare dell’assisiate. Le due Vitae, integrandosi l’un l’altra, rispecchiano non un servile adattamento a direttive di committenti, ma la sensibilità dell’autore ai “segni dei tempi” mai scevra, tuttavia, di rimpianto per la robusta impostazione evangelica data dall’uomo nuovo Francesco (così egli lo chiamò) alla sua prima compagnia. Letterato di vaglia, seppe dare veste elegante alla sua esposizione, non trascurando neppure qualche dato cronologico e riferimenti alla legislazione serafica ed agli scritti del santo, ma senza pedanteria. Autentico religioso, seppe cogliere i valori ascetici e mistici del suo eroe, l’inquadramento nella dogmatica, e lo presentò, assai prima del Pisano, come imitatore di Cristo e come specchio nel quale i seguaci dovevano mirarsi per ricalcare le vestigia del Maestro divino e del loro Patriarca (cf. Vita I, n. 90 e Vita II, n. 26).
Con intuito di artista, ma anche di esperto nella ricerca della santità, fissò gli elementi preponderanti nel suo modello: adorazione al sommo bene Dio uno e trino, cristocentrismo considerato specialmente riguardo all’Incarnazione, alla passione, al finalismo glorificatore, culto eucaristico, devozione mariana, servizio ecclesiale nel rispetto della gerarchia, e, percorrendo la scuola bonaventuriana, riconobbe e additò per primo l’iter del semplice, povero, serafico Francesco verso la Sapienza, ossia, attraverso le creature fraternamente amate l’orazione ed i rapimenti, fino al riposo della mistica teologia, anche se, vivendo e scrivendo nella prima metà del sec. XIII, non poteva usare la metodologia invalsa posteriormente, e nella quale non avrebbe potuto costringere l’originalità del lirico araldo del Gran Re. Come s. Francesco, Tommaso sapeva che la contemplazione infusa è un dono, e l’attività dello spirito nell’esercizio delle virtù cardinali e teologali è un dovere. Inclinava perciò ad una certa austerità di vedute, ma con tocchi sicuri delineò le particolari amabili virtù francescane come la semplicità, la serenità nella povertà e nella sofferenza, l’umiltà dei “minori” insieme con la cavalleresca liberalità e cortesia, ed alimentò di forte luce il senso del divino e le attrattive della carità.

III. FAMA DI SANTITA’ E CULTO.
Vivente, ebbe la stima dei confratelli e della Curia non solo per meriti letterari: basterebbe pensare allo spontaneo “servizio” missionario, che allora veniva considerato come il più alto grado dell’obbedienza religiosa (cf. Regula I, cap. 16 e Reg. II, cap. 12; Vita II, n.152). Frate Angelo Clareno, tra il 1322 e il 1325, apriva la sua Historia septem tribulationum così: “Vitam pauperis et humilis viri Dei Francisci… quator solemnes personae scripserunt, fratres videlicet scientia et sanctitate praeclari
Johannes et Thomas de Celano, frater Bonaventura… et vir mirae simplicitatis et sanctitatis frater Leo”.
Più tardi fra’ Mariano da Firenze lo ricordava come “il santo discepolo di s. Francesco” e beato lo diceva il Tossignano (1586).
Tra gli scrittori esterni all’Ordine minoritico, Muzio Febonio di Avezzano, abate di Trasacco, scriveva la Vita del B. Tommaso di seguito alla Vita di S. Berardo cardinale, seguito dal Corsignani celanese, che lo annoverava in apertura alla serie dei santi della Marsica.
Nel Martirologio Francescano è ricordato al giorno 4 ottobre.
Autori abruzzesi hanno scritto che, correndo voce di prodigi manifestati presso il sepolcro del b.Tommaso in Val dei Varri, come splendori nella notte, il popolo si recava a venerarlo. Ai primi del Cinquecento, abbandonato il monastero delle Clarisse ed incorporati i beni al convento dei Frati di Tagliacozzo, i cittadini di Scansano si disponevano a portare i resti venerati nel loro Comune, ma furono prevenuti da quei frati, che li trafugarono. Lo asserisce il Monitorium con il quale Giovanni Luchino Arnuzzi, giudice delegato da Leone X, a richiesta del vescovo dei Marsi, Giacomo, il 17 marzo 1517, citava a comparire fra’ Domenico ed altri del convento di s. Francesco di Tagliacozzo per avere di notte trasportato dalla chiesa in Val dei Varri al loro convento “quoddam sanctum corpus, ut asseritur Beati Thomasii”, per assicurarsi il concorso di popolo. Questo documento, introvabile al d’Alençon, ma nel 1968 rintracciato da Giovanni Odorardi e letto da lui e da chi scrive queste righe, insieme con l’elenco di prodigi avvenuti al tempo della traslazione, riportato dal Febonio, autentica la fama del culto popolare, che si rinnova ogni anno in Tagliacozzo il giorno dell’Indulgenza della Porziuncola (2 agosto) ed in Celano la seconda domenica di ott. A Tagliacozzo la spoglia del celanese fu collocata dapprima in un sarcofago di pietra nella chiesa di S. Francesco, dietro l’altare, nella Cappella ducale; dopo la ricognizione ordinata dal vescovo dei Marsi Domenico Antonio Brizi (1741-1760), le ossa vennero raccolte in urna di legno, dal cui vetro anteriore era visibile il teschio, coperto di cappuccio bigio, e dichiarate del b. Tommaso, come, in teche minori, alcuni oggetti.
Nel 1960, coincidendo i restauri della gotica chiesa con le celebrazioni centenarie della morte di Tommaso, il vescovo Domenico Valeri provvide a nuova ricognizione per uno studio scientifico dei resti (6 lugl.-24 sett.), e finalmente lo scheletro di alta statura, ricomposto sotto un nuovo saio francescano, fu chiuso in un’urna di bronzo e cristalli, e collocato provvisoriamente su una mensa laterale.
Lo stesso vescovo il 24 maggio 1968 ha istituito una Commissione di studio che indaghi sul culto locale ab immemorabili.
Tra le testimonianze di ammirazione va ricordata la Lettera di Giovanni XXIII al vescovo dei Marsi in data 29 agosto 1960, nella quale il papa, terziario francescano, ricordava di avere “avuto un tocco di speciale richiamo al pio e dotto Minorita” già nell’allocuzione del precedente anno nell’arcibasilica Lateranense, e concludeva: “Amiamo ora accompagnare le annunziate celebrazioni, che di lui onorano la memoria e ripropongono a meditazione le veneranda figura e gli scritti insigni, con la speranza e l’augurio che, per mezzo di esse, codeste care popolazioni… sappiano altresì attingere… un rinnovato impegno nell’esercizio di quelle esimie virtù ‘ paupertas, oboedientia, caritas ’, delle quali la vita di fra’ Tommaso da Celano offre luminoso esempio”.


FESTA DOS SANTOS DE KAZAN

 

È stata istituita con il consenso del patriarca di Mosca, Pimen. Si fa memoria dei santi vescovi Gurio di Kazan', Barsonufio di Tver' e Germano di Kazan', dei monaci martiri Giuseppe, Sergio, Antonio, Barlamio, Giobbe e Pietro Raìfskie e del monaco Gabriele Sedmiezerskij.
La festa ricorre la prima domenica successiva al 4 ott.

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Os meus cumprimentos e agradecimentos pela atenção que me dispensarem.

Textos recolhidos

In

MARTIROLÓGIO ROMANO
Ed. Conferência Episcopal Portuguesa - MMXIII

e

sites: Wikipédia.org; Santiebeati.it; es.catholic.net/santoral, e outros











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Nº 5 801 - SÉRIE DE 2024 - Nº (277) - SANTOS DE CADA DIA - 2 DE OUTUBRO DE 2024

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