Caros Amigos:
Desejo a todos os meus leitores
8º A N O
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ASPRENATE de Nápoles, Santo
EUFRÓNIO de Autun, Santo
Em Autun, na Gália Lionense, hoje França, Santo EUFRÓNIO bispo que edificou a basílica do mártir São SINFRONIANO e adornou com maior decoro o túmulo de São MARTINHO DE TOURS. (475)
MARTINHO da Campânia, Santo
,
No monte Mássico, na Campânia, Itália, São MARTINHO que permaneceu durante muitos anos recluso numa estreita caverna. (580)
PEDRO de Anágni, Santo
Em Anágni, no Lácio, Itália, São PEDRO bispo que resplandeceu pela observância monástica, depois pela sua diligência pastoral e finalmente pela edificação da igreja catedral, (1105)
AGOSTINHO KAZOTIK, Beato
Em Lucera, na Apúlia, Itália, o Beato AGOSTINHO KAZOTIC bispo da Ordem dos Pregadores que, primeiro governou a igreja de Zagreb e depois por causa da hostilidade do rei da Dalmácia transitou para a sede de Lucera, onde se dedicou com grande diligência ao cuidado dos pobres e dos necessitados. (1323)
SALVADOR FERRÁNDIS SEGUI, Beato
Em Alicante, Espanha, o beato SALVADOR FERRÁNDIS SEGUI, presbitero e mártir que, durante a perseguição contra a fé, derramou o seu sangue por Cristo e alcançou a palma da glória. (1936)
AFONSO LÓPEZ LÓPEZ e
MIGUEL REMON SALVADOR, Beatos
Em Samalus, Barcelona, Espanha, os beatos mártires AFONSO LÓPEZ LÓPEZ presbitero e MIGUEL REMON SALVADOR religioso ambos da Ordem dos Frades menores Conventuais que na mesma perseguição forma coroados com o supremo testemunho de Cristo. (1936)
FRANCISCO BANDRÉS SANCHES, Beato
Em Barcelona, Espanha, o Beato FRANCISCO BANDRÉS SÁNCHEZ presbitero da Sociedade Salesiana e mártir quem durante a mesma perseguição. confirmou com o seu sangue a plena fidelidade a Cristo. (1936)
ANTÓNIO MOHEDANO LARRIVA e
ANTÓNIO PANCORBO LÓPEZ, Beatos
Em Ronda, Málaga, Espanha, os beatos ANTÓNIO MOHEDANO LARRIVA e ANTÓNIO PANCORBO LÓPEZ presbiteros da Sociedade Salesiana e mártires. (1936)
FULGÊNCIO DE QUEZADA, Beato
Anche le sante sorelle, Licinia, Leonzia, Ampelia e Flavia, costituirono il degno corollario di santità, che circondò la figura e l’opera del grande santo protovescovo di Vercelli, s. Eusebio († 1° agosto 371); il quale con il suo celebre cenobio, formò e produsse tante figure sante, soprattutto di vescovi, che onorarono con il loro illuminato episcopato, quasi tutte le diocesi dell’Italia Settentrionale, a partire dalla stessa antica diocesi di Vercelli.
Ma sant’Eusebio fondò anche un monastero femminile a Vercelli, affidandolo alla sorella sant’Eusebia, che ne divenne la prima superiora. E in questo monastero, sin dai primi tempi, fiorirono esemplari e sante figure di monache, fra le quali le suddette quattro vergini di cui parliamo.
Il monastero sorse presso la chiesa cattedrale, il cui vescovo era s. Eusebio, notissimo per la sua austerità e dottrina spirituale, che ne dettò insieme alla sorella, le norme di vita ascetica.
Le monache dovevano praticare digiuni, vivere in rigida povertà, raccogliersi più volte al giorno e anche nella notte, a cantare in coro le lodi del Signore, osservare scrupolosamente la clausura, occupare le ore libere nel lavoro per il soddisfacimento delle necessità del monastero e provvedere anche al servizio della cattedrale con la cura delle suppellettili e dei paramenti.
All’interno della basilica cattedrale, correva sulle navate laterali e nel vestibolo un matroneo, da dove le monache assistevano ai sacri riti, associandosi alle preghiere del popolo.
Oltre il nome della prima superiora s. Eusebia, si conoscono solo otto o nove nomi di monache, conservati nelle antiche iscrizioni che ornavano i loro sepolcri; è il caso delle monache Zenobia, Costanza e delle quattro di cui parliamo; anzi Licinia, Leonzia, Ampelia e Flavia, ebbero culto nell’antica liturgia eusebiana e furono invocate con i santi di quella Chiesa nelle litanie.
Un’iscrizione metrica e acrostica ornava il sepolcro delle quattro vergini e ne esaltava le virtù con espressioni colme di ammirazione, in epoca recente il marmo andò smarrito, ma fortunatamente i trenta versi del carme erano stati in precedenza trascritti e sono attualmente l’unica fonte che fornisce notizie su di loro.
Da questa iscrizione si apprende nell’ultimo verso, che la nipote delle sante vergini che erano quattro sorelle, di nome Taurina, monaca anch’essa e forse superiora, volle collocare sul sepolcro che le custodiva tutte insieme, il carme che fu composto probabilmente dal vescovo s. Flaviano, già alunno del cenobio eusebiano e poeta celebrante i meriti dei personaggi più degni, fioriti nella Chiesa vercellese.
Caratteristica singolare del carme, è che non sono nominate le quattro sorelle ma l’autore alla fine dell’elogio, avverte i lettori che i suoi versi sono acrostici (componimento poetico in cui le iniziali dei singoli versi, lette nell’ordine, formano una o più parole, come ad esempio, il nome della persona a cui esso è dedicato); quindi i nome delle sorelle si apprendono leggendo di seguito le prime lettere dei 30 versi.
Per quando riguarda l’epoca in cui vissero, calcolando l’età della loro nipote Taurina, vissuta una generazione dopo di esse ed essendo la nipote contemporanea di s. Flaviano († 542), si può calcolare che Licinia, Leonzia, Ampelia e Flavia, siano vissute nella seconda metà del secolo precedente, cioè del V; quindi un centinaio d’anni dopo la fondazione del monastero; inoltre i loro nomi classicamente romani, indicano che vissero in periodo anteriore alle invasioni barbariche.
I versi del suddetto carme elogiano la pietà e la fede dei genitori, che avevano donato e dedicato al celeste Re, tante figlie nel monastero eusebiano; particolare estro poetico, l’autore lo dedica alla madre delle quattro sorelle, Maria, che diede alla luce le elette pecorelle e riposa nella pace eterna illuminata dalla luce dei quattro astri splendenti, così come quando accompagnò nel tempio le sue vergini figlie, che cantando si apprestavano a consacrarsi a Dio.
Il carme continua encomiando le virtù delle quattro sorelle, che nel monastero apparvero ornate di fiori e come le vergini della parabola evangelica, pregando attesero la venuta dello Sposo divino, avvolte nel loro abito monacale.
Sotto il velo imposto sul loro capo dal vescovo celebrante, trascorsero l’innocente vita ricca di opere buone. Ed ora i loro corpi, liberi da ogni sofferenza, giacciono in un unico sepolcro, tanto fu l’amore che le tenne unite in vita, che un sol tumulo le custodisce e conserva alla venerazione dei fedeli.
Lo storico M. A. Cusano, pone le quattro sante al 3 agosto nel Calendario Eusebiano da lui pubblicato. Le loro reliquie sono nella cattedrale di Vercelli e una parte anche nella Chiesa della Casa Madre della Congregazione delle Suore Figlie di S. Eusebio, fondata a Vercelli il 29 marzo 1899 da mons. Dario Bognetti e da suor Eusebia Arrigoni, la cui spiritualità si rifà al millenario monastero eusebiano.
Desejo a todos os meus leitores
UM BOM ANO DE 2016
Nº 2835 - (216 - 2016)
3 DE AGOSTO DE 2016
SANTOS DE CADA DIA
8º A N O
LOUVADO SEJA NOSSO SENHOR JESUS CRISTO
**********************************************************
Comemorar e lembrar os
Santos de Cada Dia
é dever de todo o católico,
assim como procurar seguir os seus exemplos
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ASPRENATE de Nápoles, Santo
Em Nápoles, na Campânia, Itália, Santo ASPRENATE ou ASPRENO primeiro bispo desta cidade. (séc. II)
EUFRÓNIO de Autun, Santo
Em Autun, na Gália Lionense, hoje França, Santo EUFRÓNIO bispo que edificou a basílica do mártir São SINFRONIANO e adornou com maior decoro o túmulo de São MARTINHO DE TOURS. (475)
MARTINHO da Campânia, Santo
No monte Mássico, na Campânia, Itália, São MARTINHO que permaneceu durante muitos anos recluso numa estreita caverna. (580)
PEDRO de Anágni, Santo
Em Anágni, no Lácio, Itália, São PEDRO bispo que resplandeceu pela observância monástica, depois pela sua diligência pastoral e finalmente pela edificação da igreja catedral, (1105)
AGOSTINHO KAZOTIK, Beato
Em Lucera, na Apúlia, Itália, o Beato AGOSTINHO KAZOTIC bispo da Ordem dos Pregadores que, primeiro governou a igreja de Zagreb e depois por causa da hostilidade do rei da Dalmácia transitou para a sede de Lucera, onde se dedicou com grande diligência ao cuidado dos pobres e dos necessitados. (1323)
SALVADOR FERRÁNDIS SEGUI, Beato
Em Alicante, Espanha, o beato SALVADOR FERRÁNDIS SEGUI, presbitero e mártir que, durante a perseguição contra a fé, derramou o seu sangue por Cristo e alcançou a palma da glória. (1936)
AFONSO LÓPEZ LÓPEZ e
MIGUEL REMON SALVADOR, Beatos
Em Samalus, Barcelona, Espanha, os beatos mártires AFONSO LÓPEZ LÓPEZ presbitero e MIGUEL REMON SALVADOR religioso ambos da Ordem dos Frades menores Conventuais que na mesma perseguição forma coroados com o supremo testemunho de Cristo. (1936)
FRANCISCO BANDRÉS SANCHES, Beato
Em Barcelona, Espanha, o Beato FRANCISCO BANDRÉS SÁNCHEZ presbitero da Sociedade Salesiana e mártir quem durante a mesma perseguição. confirmou com o seu sangue a plena fidelidade a Cristo. (1936)
ANTÓNIO MOHEDANO LARRIVA e
ANTÓNIO PANCORBO LÓPEZ, Beatos
Em Ronda, Málaga, Espanha, os beatos ANTÓNIO MOHEDANO LARRIVA e ANTÓNIO PANCORBO LÓPEZ presbiteros da Sociedade Salesiana e mártires. (1936)
... E AINDA ...
FULGÊNCIO DE QUEZADA, Beato
Generoso mercedario di nobili origini, il Beato
Fulgenzio de Quesada, fu inviato da San Pietro de Amer per la provincia
di Castiglia a redimere in Marocco. Dopo aver sofferto molti tormenti
per il nome di Cristo, liberò 204 schiavi nell'anno 1282 strappandoli da
una crudele schiavitù. Finché insigne per santità, glorioso per i
meriti e miracoli morì in pace.
L'Ordine lo festeggia il 3 agosto.
L'Ordine lo festeggia il 3 agosto.
JOSÉ GUARDIET Y PUJOL, Beato
José Guardiet y Pujol nacque il 21 giugno 1879, memoria di san Luigi Gonzaga, nell’operosa cittadina di Manlleu, vicino Barcellona, dove suo padre lavorava come farmacista.
Entrato nel Seminario di Vic, si addottorò in Teologia presso l’Università Pontificia di Tarragona. Nel 1902, a Barcellona, ricevette l’ordinazione sacerdotale.
Negli anni fra il 1902 e il 1905 esercitò il ministero come vicario nelle parrocchie di Ullastrell, Olesa de Montserrat e Argentona. Nel 1912 venne assegnato alla chiesa di Santa Maria del Pi a Barcellona e, dal 1914 al 1916, fu economo della parrocchia del Santo Espíritu a Tarrasa. Un giorno, durante una gita con i suoi giovani, passando per la città di Rubí, esclamò: «Rubí, Rubí, che qualcuno possa vivere nel tuo paese e dare per te il suo sangue!». I giovani risposero: «Lo sa che questo è un paese molto cattivo?». Ribatté: «Nessuno è buono del tutto; io sento questo desiderio apostolico». Poco dopo, nel 1917, venne nominato rettore della parrocchia di San Pedro, proprio a Rubí.
Instancabile predicatore e catechista, e allo stesso tempo austero e servizievole, era chiamato “il parroco del sorriso”, per il suo senso dell’umorismo e la sua affabilità, divenuta proverbiale. Casa sua era sempre aperta, con un continuo viavai di persone, che a volte gl’impedivano perfino di mangiare: «Il pasto può attendere, ma il fedele no», affermava.
La sua attività prediletta era la preparazione dei bambini alla Prima Comunione. La gioia dei suoi piccoli era da lui spiegata con un curioso paragone: «Un bambino che riceve la Comunione è più felice di san Giuseppe che lo [Gesù] tiene fra le braccia, perché è meglio mangiarsi una mela che tenerla in mano».
Animatore di svariati pellegrinaggi a Lourdes e verso altri santuari mariani, accolse l’iniziativa del Servo di Dio Manuel Irurita Almándoz, Vescovo di Barcellona, impegnandosi con entusiasmo nell’organizzazione di un’importante manifestazione catechistica interdiocesana, svoltasi a Montserrat il 25 giugno 1933.
Pochi anni dopo, iniziò la prima fase della persecuzione religiosa causata dalla guerra civile spagnola. Con il sorgere della Repubblica, il municipio di Rubí vietò che si suonassero le campane. La creatività di don José produsse una soluzione ingegnosa: illuminare i finestroni del campanile con luci di vari colori, a seconda della festa o dell’evento da annunciare. Se c’era un battesimo, la luce era bianca; se c’era un matrimonio, rosa; se stavano per tenersi le esequie di un bambino, azzurra; se si trattava di quelle di un adulto, viola. Per le solennità, la luce era rossa, mentre per le feste era verde.
I suoi parrocchiani apprezzarono la forzata novità a tal punto da arrivare a riconoscere gli eventi meglio che dal suono delle campane. L’idea ebbe risonanza internazionale, a tal punto da essere presentata su di una rivista cattolica inglese diretta da Gilbert Keith Chesterton, che l’elogiò col suo abituale stile.
Aggirato quell’ostacolo, ebbe ugualmente contrasti con le autorità civili. Il primo problema da affrontare fu quello a riguardo delle sepolture religiose: nonostante i fedeli, infatti, rilasciassero dichiarazioni in vita per essere sepolti cristianamente, venivano trovati dei difetti di forma, al punto da obbligare i sacerdoti a sciogliere il corteo funebre. Il parroco non si scompose e rimase sulle sue posizioni.
In seguito, il sindaco proibì la tradizionale processione mariana per la conclusione del mese di maggio, per motivi di ordine pubblico. Don José ubbidì e soppresse anche la processione del Corpus Domini, ma in una lettera che trapelava ironia espresse i suoi sentimenti: «Quest’anno Gesù resterà all’interno della chiesa, per il timore che, se uscisse, perturberebbe l’ordine pubblico, Lui che è la pacificazione degli spiriti e dei popoli».
Nel luglio 1936, da semi-occulta, la persecuzione divenne sanguinaria. Lo stesso don José rischiò la vita e in molti, incluse persone di idee opposte alle sue, si offrirono di dargli rifugio. Ad esempio, il medico cittadino, il dottor Parellada, il mattino del 19 luglio corse dal parroco, che stava tenendo una riunione della Gioventù Cattolica Femminile, per avvisarlo che alle tre del pomeriggio sarebbe stata chiusa la frontiera e che avrebbe fatto bene a venire con lui. Il sacerdote ringraziò e declinò l’invito: «Il mio posto è vicino ai miei fedeli».
Lunedì 20 luglio aprì la chiesa e distribuì la Comunione ogni quarto d’ora, come faceva sempre. Ma, all’arrivo della notte, alcuni malintenzionati circondarono la parrocchia. Il vicario, don José Tintó, testimone oculare degli eventi che ebbe salva la vita, raccontò l’accaduto.
A mezzanotte, uno sparo fu il segnale convenuto per l’attacco: alcuni momenti dopo, un gruppo di persone armate si presentò alla casa canonica, reclamando le chiavi della chiesa e la presenza del “signor” Guardiet. Il sacerdote, accompagnato dal vicario, uscì e venne obbligato ad aprire la chiesa e ad accendere la luce. I manifestanti erano rimasti in maggior parte colpiti dalla serenità del parroco, ma, istigati dal loro capo, irruppero all’interno. Don José riuscì, per concessione del capo, a mettere in salvo il Santissimo Sacramento in casa propria, poi si ritirò e si mise a guardare da una finestra cosa accadeva.
I rivoltosi non si limitarono solo a saccheggiare la chiesa: impilarono le panche e diedero loro fuoco con del liquido infiammabile. Sconvolto, il sacerdote trascorse quattro ore davanti all’Eucaristia, preparandosi ad affrontare il martirio.
Giunto il mattino di martedì 21, scese in piazza da solo, con un secchio d’acqua, allo scopo di salvare il salvabile. Andò e tornò due volte, finché un rivoltoso che passava di là lo convinse amichevolmente che era nell’interesse di tutti che tornasse alla canonica. Lo stesso giorno venne arrestato e condotto al carcere di Rubí, dove trascorse quindici giorni pregando e confortando gli altri detenuti.
Il 3 agosto, alle 15, alcuni miliziani forestieri lo tirarono fuori dal carcere e, con altri due cittadini di Rubí, lo condussero lungo la strada detta Arrabassada, che porta da San Cugat al monte Tibidabo. Durante il tragitto, i soldati si tenevano a rispettosa distanza, come se si vergognassero di fronte alla gente. Don José disse loro: «Potete venire con me. Non affliggetevi. In fondo, se fate questo siete obbligati”.
Giunti in un luogo detto “El Pi Bessó” (“Il pino gemello”, segnalato da due alberi che erano cresciuti insieme fino a formare un tronco unico), il sacerdote perdonò i suoi uccisori. Sei dei carnefici, dall’emozione, si lasciarono cadere di mano i fucili, ma il settimo osò sparare sul parroco e sui due fedeli.
Mercoledì 5 agosto il suo corpo venne prelevato dall’ospedale per essere sepolto nel cimitero sud-ovest di Barcellona, sul Montjuic. Era accompagnato, tra gli altri, dalla nipote Magdalena, che custodiva due fazzoletti macchiati col sangue dello zio.
Nel 1939, sul luogo del martirio, venne eretta una stele, che negli ultimi anni è stata più volte profanata e, altrettante volte, rimessa in ordine dagli zelanti membri dell’associazione “Amics del dr. Guardiet” (in Catalogna, i parroci hanno il titolo di “doctor”). Nel 1945 i resti mortali del sacerdote vennero traslati nella chiesa di San Pedro a Rubí, presso l’altare della Madonna di Montserrat, alla quale fu molto devoto.
La causa canonica per accertare il martirio di don José Guardiet y Pujol venne aperta nella diocesi di Barcellona il 12 febbraio 1959, ma ottenne il nulla osta solo trent’anni dopo, l’11 dicembre 1989, perché nel 1964 le cause dei Servi di Dio morti durante la guerra civile vennero fermate. L’inchiesta diocesana venne quindi ripresa il 30 novembre 1992 e chiusa il 5 luglio 1994. Il decreto per la validità dell’inchiesta giunse il 29 gennaio 1999, mentre la “Positio super virtutibus” venne presentata a Roma nel 2002.
Nei giorni 3 e 4 luglio 2013, il vescovo della Diocesi di Tarrasa (suffraganea dell’Arcidiocesi di Barcellona, nel cui territorio si trova Rubí), monsignor Josep Àngel Sáiz Meneses, ha presieduto la riesumazione e il riconoscimento dei resti mortali del sacerdote, posti nuovamente nella parrocchia da lui tanto amata e servita.
L’indomani, 5 luglio, papa Francesco ha firmato il decreto che sancisce la beatificazione di don José. La celebrazione è avvenuta a Tarragona il 13 ottobre 2013, unitamente a quella di altri cinquecentoventuno martiri della guerra civile spagnola.
LICÍNIA, LEÔNCIA, AMPÉLIA e FLÁVIA, Santas
José Guardiet y Pujol nacque il 21 giugno 1879, memoria di san Luigi Gonzaga, nell’operosa cittadina di Manlleu, vicino Barcellona, dove suo padre lavorava come farmacista.
Entrato nel Seminario di Vic, si addottorò in Teologia presso l’Università Pontificia di Tarragona. Nel 1902, a Barcellona, ricevette l’ordinazione sacerdotale.
Negli anni fra il 1902 e il 1905 esercitò il ministero come vicario nelle parrocchie di Ullastrell, Olesa de Montserrat e Argentona. Nel 1912 venne assegnato alla chiesa di Santa Maria del Pi a Barcellona e, dal 1914 al 1916, fu economo della parrocchia del Santo Espíritu a Tarrasa. Un giorno, durante una gita con i suoi giovani, passando per la città di Rubí, esclamò: «Rubí, Rubí, che qualcuno possa vivere nel tuo paese e dare per te il suo sangue!». I giovani risposero: «Lo sa che questo è un paese molto cattivo?». Ribatté: «Nessuno è buono del tutto; io sento questo desiderio apostolico». Poco dopo, nel 1917, venne nominato rettore della parrocchia di San Pedro, proprio a Rubí.
Instancabile predicatore e catechista, e allo stesso tempo austero e servizievole, era chiamato “il parroco del sorriso”, per il suo senso dell’umorismo e la sua affabilità, divenuta proverbiale. Casa sua era sempre aperta, con un continuo viavai di persone, che a volte gl’impedivano perfino di mangiare: «Il pasto può attendere, ma il fedele no», affermava.
La sua attività prediletta era la preparazione dei bambini alla Prima Comunione. La gioia dei suoi piccoli era da lui spiegata con un curioso paragone: «Un bambino che riceve la Comunione è più felice di san Giuseppe che lo [Gesù] tiene fra le braccia, perché è meglio mangiarsi una mela che tenerla in mano».
Animatore di svariati pellegrinaggi a Lourdes e verso altri santuari mariani, accolse l’iniziativa del Servo di Dio Manuel Irurita Almándoz, Vescovo di Barcellona, impegnandosi con entusiasmo nell’organizzazione di un’importante manifestazione catechistica interdiocesana, svoltasi a Montserrat il 25 giugno 1933.
Pochi anni dopo, iniziò la prima fase della persecuzione religiosa causata dalla guerra civile spagnola. Con il sorgere della Repubblica, il municipio di Rubí vietò che si suonassero le campane. La creatività di don José produsse una soluzione ingegnosa: illuminare i finestroni del campanile con luci di vari colori, a seconda della festa o dell’evento da annunciare. Se c’era un battesimo, la luce era bianca; se c’era un matrimonio, rosa; se stavano per tenersi le esequie di un bambino, azzurra; se si trattava di quelle di un adulto, viola. Per le solennità, la luce era rossa, mentre per le feste era verde.
I suoi parrocchiani apprezzarono la forzata novità a tal punto da arrivare a riconoscere gli eventi meglio che dal suono delle campane. L’idea ebbe risonanza internazionale, a tal punto da essere presentata su di una rivista cattolica inglese diretta da Gilbert Keith Chesterton, che l’elogiò col suo abituale stile.
Aggirato quell’ostacolo, ebbe ugualmente contrasti con le autorità civili. Il primo problema da affrontare fu quello a riguardo delle sepolture religiose: nonostante i fedeli, infatti, rilasciassero dichiarazioni in vita per essere sepolti cristianamente, venivano trovati dei difetti di forma, al punto da obbligare i sacerdoti a sciogliere il corteo funebre. Il parroco non si scompose e rimase sulle sue posizioni.
In seguito, il sindaco proibì la tradizionale processione mariana per la conclusione del mese di maggio, per motivi di ordine pubblico. Don José ubbidì e soppresse anche la processione del Corpus Domini, ma in una lettera che trapelava ironia espresse i suoi sentimenti: «Quest’anno Gesù resterà all’interno della chiesa, per il timore che, se uscisse, perturberebbe l’ordine pubblico, Lui che è la pacificazione degli spiriti e dei popoli».
Nel luglio 1936, da semi-occulta, la persecuzione divenne sanguinaria. Lo stesso don José rischiò la vita e in molti, incluse persone di idee opposte alle sue, si offrirono di dargli rifugio. Ad esempio, il medico cittadino, il dottor Parellada, il mattino del 19 luglio corse dal parroco, che stava tenendo una riunione della Gioventù Cattolica Femminile, per avvisarlo che alle tre del pomeriggio sarebbe stata chiusa la frontiera e che avrebbe fatto bene a venire con lui. Il sacerdote ringraziò e declinò l’invito: «Il mio posto è vicino ai miei fedeli».
Lunedì 20 luglio aprì la chiesa e distribuì la Comunione ogni quarto d’ora, come faceva sempre. Ma, all’arrivo della notte, alcuni malintenzionati circondarono la parrocchia. Il vicario, don José Tintó, testimone oculare degli eventi che ebbe salva la vita, raccontò l’accaduto.
A mezzanotte, uno sparo fu il segnale convenuto per l’attacco: alcuni momenti dopo, un gruppo di persone armate si presentò alla casa canonica, reclamando le chiavi della chiesa e la presenza del “signor” Guardiet. Il sacerdote, accompagnato dal vicario, uscì e venne obbligato ad aprire la chiesa e ad accendere la luce. I manifestanti erano rimasti in maggior parte colpiti dalla serenità del parroco, ma, istigati dal loro capo, irruppero all’interno. Don José riuscì, per concessione del capo, a mettere in salvo il Santissimo Sacramento in casa propria, poi si ritirò e si mise a guardare da una finestra cosa accadeva.
I rivoltosi non si limitarono solo a saccheggiare la chiesa: impilarono le panche e diedero loro fuoco con del liquido infiammabile. Sconvolto, il sacerdote trascorse quattro ore davanti all’Eucaristia, preparandosi ad affrontare il martirio.
Giunto il mattino di martedì 21, scese in piazza da solo, con un secchio d’acqua, allo scopo di salvare il salvabile. Andò e tornò due volte, finché un rivoltoso che passava di là lo convinse amichevolmente che era nell’interesse di tutti che tornasse alla canonica. Lo stesso giorno venne arrestato e condotto al carcere di Rubí, dove trascorse quindici giorni pregando e confortando gli altri detenuti.
Il 3 agosto, alle 15, alcuni miliziani forestieri lo tirarono fuori dal carcere e, con altri due cittadini di Rubí, lo condussero lungo la strada detta Arrabassada, che porta da San Cugat al monte Tibidabo. Durante il tragitto, i soldati si tenevano a rispettosa distanza, come se si vergognassero di fronte alla gente. Don José disse loro: «Potete venire con me. Non affliggetevi. In fondo, se fate questo siete obbligati”.
Giunti in un luogo detto “El Pi Bessó” (“Il pino gemello”, segnalato da due alberi che erano cresciuti insieme fino a formare un tronco unico), il sacerdote perdonò i suoi uccisori. Sei dei carnefici, dall’emozione, si lasciarono cadere di mano i fucili, ma il settimo osò sparare sul parroco e sui due fedeli.
Mercoledì 5 agosto il suo corpo venne prelevato dall’ospedale per essere sepolto nel cimitero sud-ovest di Barcellona, sul Montjuic. Era accompagnato, tra gli altri, dalla nipote Magdalena, che custodiva due fazzoletti macchiati col sangue dello zio.
Nel 1939, sul luogo del martirio, venne eretta una stele, che negli ultimi anni è stata più volte profanata e, altrettante volte, rimessa in ordine dagli zelanti membri dell’associazione “Amics del dr. Guardiet” (in Catalogna, i parroci hanno il titolo di “doctor”). Nel 1945 i resti mortali del sacerdote vennero traslati nella chiesa di San Pedro a Rubí, presso l’altare della Madonna di Montserrat, alla quale fu molto devoto.
La causa canonica per accertare il martirio di don José Guardiet y Pujol venne aperta nella diocesi di Barcellona il 12 febbraio 1959, ma ottenne il nulla osta solo trent’anni dopo, l’11 dicembre 1989, perché nel 1964 le cause dei Servi di Dio morti durante la guerra civile vennero fermate. L’inchiesta diocesana venne quindi ripresa il 30 novembre 1992 e chiusa il 5 luglio 1994. Il decreto per la validità dell’inchiesta giunse il 29 gennaio 1999, mentre la “Positio super virtutibus” venne presentata a Roma nel 2002.
Nei giorni 3 e 4 luglio 2013, il vescovo della Diocesi di Tarrasa (suffraganea dell’Arcidiocesi di Barcellona, nel cui territorio si trova Rubí), monsignor Josep Àngel Sáiz Meneses, ha presieduto la riesumazione e il riconoscimento dei resti mortali del sacerdote, posti nuovamente nella parrocchia da lui tanto amata e servita.
L’indomani, 5 luglio, papa Francesco ha firmato il decreto che sancisce la beatificazione di don José. La celebrazione è avvenuta a Tarragona il 13 ottobre 2013, unitamente a quella di altri cinquecentoventuno martiri della guerra civile spagnola.
LICÍNIA, LEÔNCIA, AMPÉLIA e FLÁVIA, Santas
Anche le sante sorelle, Licinia, Leonzia, Ampelia e Flavia, costituirono il degno corollario di santità, che circondò la figura e l’opera del grande santo protovescovo di Vercelli, s. Eusebio († 1° agosto 371); il quale con il suo celebre cenobio, formò e produsse tante figure sante, soprattutto di vescovi, che onorarono con il loro illuminato episcopato, quasi tutte le diocesi dell’Italia Settentrionale, a partire dalla stessa antica diocesi di Vercelli.
Ma sant’Eusebio fondò anche un monastero femminile a Vercelli, affidandolo alla sorella sant’Eusebia, che ne divenne la prima superiora. E in questo monastero, sin dai primi tempi, fiorirono esemplari e sante figure di monache, fra le quali le suddette quattro vergini di cui parliamo.
Il monastero sorse presso la chiesa cattedrale, il cui vescovo era s. Eusebio, notissimo per la sua austerità e dottrina spirituale, che ne dettò insieme alla sorella, le norme di vita ascetica.
Le monache dovevano praticare digiuni, vivere in rigida povertà, raccogliersi più volte al giorno e anche nella notte, a cantare in coro le lodi del Signore, osservare scrupolosamente la clausura, occupare le ore libere nel lavoro per il soddisfacimento delle necessità del monastero e provvedere anche al servizio della cattedrale con la cura delle suppellettili e dei paramenti.
All’interno della basilica cattedrale, correva sulle navate laterali e nel vestibolo un matroneo, da dove le monache assistevano ai sacri riti, associandosi alle preghiere del popolo.
Oltre il nome della prima superiora s. Eusebia, si conoscono solo otto o nove nomi di monache, conservati nelle antiche iscrizioni che ornavano i loro sepolcri; è il caso delle monache Zenobia, Costanza e delle quattro di cui parliamo; anzi Licinia, Leonzia, Ampelia e Flavia, ebbero culto nell’antica liturgia eusebiana e furono invocate con i santi di quella Chiesa nelle litanie.
Un’iscrizione metrica e acrostica ornava il sepolcro delle quattro vergini e ne esaltava le virtù con espressioni colme di ammirazione, in epoca recente il marmo andò smarrito, ma fortunatamente i trenta versi del carme erano stati in precedenza trascritti e sono attualmente l’unica fonte che fornisce notizie su di loro.
Da questa iscrizione si apprende nell’ultimo verso, che la nipote delle sante vergini che erano quattro sorelle, di nome Taurina, monaca anch’essa e forse superiora, volle collocare sul sepolcro che le custodiva tutte insieme, il carme che fu composto probabilmente dal vescovo s. Flaviano, già alunno del cenobio eusebiano e poeta celebrante i meriti dei personaggi più degni, fioriti nella Chiesa vercellese.
Caratteristica singolare del carme, è che non sono nominate le quattro sorelle ma l’autore alla fine dell’elogio, avverte i lettori che i suoi versi sono acrostici (componimento poetico in cui le iniziali dei singoli versi, lette nell’ordine, formano una o più parole, come ad esempio, il nome della persona a cui esso è dedicato); quindi i nome delle sorelle si apprendono leggendo di seguito le prime lettere dei 30 versi.
Per quando riguarda l’epoca in cui vissero, calcolando l’età della loro nipote Taurina, vissuta una generazione dopo di esse ed essendo la nipote contemporanea di s. Flaviano († 542), si può calcolare che Licinia, Leonzia, Ampelia e Flavia, siano vissute nella seconda metà del secolo precedente, cioè del V; quindi un centinaio d’anni dopo la fondazione del monastero; inoltre i loro nomi classicamente romani, indicano che vissero in periodo anteriore alle invasioni barbariche.
I versi del suddetto carme elogiano la pietà e la fede dei genitori, che avevano donato e dedicato al celeste Re, tante figlie nel monastero eusebiano; particolare estro poetico, l’autore lo dedica alla madre delle quattro sorelle, Maria, che diede alla luce le elette pecorelle e riposa nella pace eterna illuminata dalla luce dei quattro astri splendenti, così come quando accompagnò nel tempio le sue vergini figlie, che cantando si apprestavano a consacrarsi a Dio.
Il carme continua encomiando le virtù delle quattro sorelle, che nel monastero apparvero ornate di fiori e come le vergini della parabola evangelica, pregando attesero la venuta dello Sposo divino, avvolte nel loro abito monacale.
Sotto il velo imposto sul loro capo dal vescovo celebrante, trascorsero l’innocente vita ricca di opere buone. Ed ora i loro corpi, liberi da ogni sofferenza, giacciono in un unico sepolcro, tanto fu l’amore che le tenne unite in vita, che un sol tumulo le custodisce e conserva alla venerazione dei fedeli.
Lo storico M. A. Cusano, pone le quattro sante al 3 agosto nel Calendario Eusebiano da lui pubblicato. Le loro reliquie sono nella cattedrale di Vercelli e una parte anche nella Chiesa della Casa Madre della Congregazione delle Suore Figlie di S. Eusebio, fondata a Vercelli il 29 marzo 1899 da mons. Dario Bognetti e da suor Eusebia Arrigoni, la cui spiritualità si rifà al millenario monastero eusebiano.
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Ed. Conferência Episcopal Portuguesa - MMXIII
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